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A Torino il «primo» ospedale con chirurgia bloodless, senza sangue

Il protocollo, raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che riduce i tempo di degenza, le infezioni e le complicanze

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Chirugia Bloodless Torino

TORINO – L’emorragia durante o dopo l’intervento rappresenta un importante fattore di rischio operatorio. Per far fronte a questa condizione, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Ministero della Salute raccomandano l’adozione di programmi di Patient Blood Management (PBM), ovvero protocolli che consentono di ottimizzare la “risorsa” di sangue del paziente e dunque di evitare o ridurre le emotrasfusioni durante gli interventi chirurgici.

Maria Pia Hospital e la chirurgia Bloodless

Maria Pia Hospital di Torino, Struttura Ospedaliera di Alta Specialità di GVM Care & Research accreditata con il SSN e centro di riferimento per la medicina e la chirurgia bloodless (senza sangue), già da due anni ha perfezionato un protocollo cardiochirurgico PBM che ha dato risultati straordinari: solo 1 paziente su 3 necessita di trasfusione. Questo protocollo è stato presentato nel corso dell’ultimo Congresso annuale SABM (Society for Advancement in Blood Management) di Baltimora (Maryland, USA) e pubblicato sull’allegato di “Anesthesia & Analgesia” del numero di settembre 2019.

Bloodless, riduce i tempi di degenza, le infezioni e le complicanze

«Si tratta del primo vero protocollo cardiochirurgico pubblicato, basato sulle tre fasi del percorso terapeutico di PBM, ovvero preoperatoria, intraoperatoria e postoperatoria, raccomandate dal Ministero della Salute e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a tutti i pazienti già dal 2010 – spiega il dottor Samuel Mancuso, Cardiochirurgo specializzato in Chirurgia bloodless presso Maria Pia Hospital di Torino – Tali raccomandazioni sono obbligatorie per migliorare i risultati sul paziente, ridurre i tempi di degenza postoperatoria e l’incidenza di infezioni e complicanze. Questo è associato anche a un vantaggio in termini di riduzione dei costi sanitari. Nonostante il processo di adeguamento delle strutture italiane alle normative ministeriali in materia di PBM sia lungo e complicato, Maria Pia Hospital si afferma come struttura all’avanguardia in questo ambito».

Che cos’è la chirurgia “bloodless”?

Si tratta di una tecnica, arrivata all’attenzione della comunità scientifica internazionale nel 1977, quando Denton Cooley pubblicò la propria esperienza al Texas Heart Institute di Houston su più di 542 pazienti cardiochirurgici che non accettavano l’emotrasfusione per motivi religiosi come ad esempio i Testimoni di Geova. L’adozione di programmi formali di PBM (Patient Blood Management) ovvero di ottimizzazione della “risorsa” sangue del paziente stesso è un’indicazione specifica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità da alcuni anni e del Ministero della Salute italiano, con dettagliate linee guida emanate più recentemente, ma ancora poco recepite dagli ospedali italiani in generale.

Maria Pia Hospital è all’avanguardia nell’applicazione di questi protocolli grazie a un’esperienza di oltre vent’anni che permette di ottimizzare una risorsa che è indubbiamente preziosa e non illimitata, che va quindi attentamente gestita. I principi della medicina “bloodless” portano a compimento proprio l’ottimizzazione della “risorsa” sangue, riducendo il ricorso stesso al sangue di donatore. In particolare, l’équipe lavora in quest’ottica fin dalla preparazione all’intervento per prevenire e gestire l’anemia pre-operatoria, ottimizzare successivamente la coagulazione per ridurre il rischio di sanguinamento e infine promuovere un’ottimale emo-conservazione. Molti studi clinici tra cui ad esempio lo studio del Centre for Bloodless Medicine and Surgery istituito nel John Hopkins Medical Institution di Baltimore (Maryland) dimostrano che la chirurgia “bloodless” comporta minori complicanze per il paziente rispetto alla strategia trasfusionale più ordinaria. I pazienti sottoposti a trasfusioni più frequenti infatti non presentano maggiori benefici rispetto a quelli trasfusi meno, o addirittura presentano più complicanze post-operatorie e un decorso post-operatorio più lento.

Centinaia di casi da inizio attività

L’ospedale vanta la casistica documentata più ampia in Italia di interventi cardiochirurgici bloodless, con oltre 230 casi dall’inizio dell’attività, poco più di 23 anni fa. L’esperienza, intrapresa inizialmente nell’ambito della Cardiochirurgia, è proseguita con l’applicazione in altre discipline, come la Cardiologia interventistica, la Chirurgia Vascolare, la Chirurgia Generale, l’Ortopedia e l’Urologia, con decine di casi l’anno provenienti da tutt’Italia. Un team specializzato e l’applicazione di tecniche di attento risparmio del sangue hanno permesso a Maria Pia Hospital di essere oggi un punto di riferimento a livello nazionale per la chirurgia bloodless, riconosciuto anche all’estero, grazie alla partecipazione a congressi internazionali e alle pubblicazioni sul tema.

«L’applicazione del protocollo bloodless a Maria Pia Hospital ha portato benefici a tutti i pazienti: siamo passati da una percentuale pari al 64,5% di pazienti cardiochirurgici trasfusi nel 2016, per arrivare al 43,9% nel 2018 – prosegue il dott. Mancuso – Nel primo semestre del 2019 i dati mostrano un’ulteriore riduzione fino al 31,2% di pazienti trasfusi con un risparmio stimato per la struttura di circa 350-400 mila euro all’anno per quanto riguarda i costi trasfusionali e le spese associate alle complicanze da trasfusione».

Interventi mininvasivi

L’approccio di Patient Blood Management indica una visione multidisciplinare della gestione del paziente che si inserisce in un’ottica mininvasiva per quel che riguarda il patrimonio ematico del paziente stesso e il rispetto per la sua integrità psico-fisica. L’équipe di medici lavora fin dalla fase pre-operatoria per prevenire e gestire l’anemia prima dell’intervento, ottimizzare successivamente la coagulazione per ridurre il rischio di sanguinamento e infine promuovere un’ottimale emo-conservazione, oltre a rispettare eventuali motivi religiosi del paziente.

Reazioni avverse associate all’emotrasfusione

«L’emotrasfusione è associata a reazioni avverse cardiache (TACO) e polmonari (TRALI), oltre che predisporre alle infezioni. In più, l’impoverimento del patrimonio ematico dell’individuo indebolisce il paziente – spiega il dott. Mancuso – e riduce la capacità d’ossigenazione verso tutti gli organi, come cervello, polmoni, reni. La tecnica bloodless è la sommatoria di tante piccole attenzioni, dalla valutazione pre-intervento, con semplici test di laboratorio, alla gestione vera e propria della procedura chirurgica per salvaguardare e recuperare ogni singola goccia di sangue, compreso quello di cui sono imbevute le garze, che non vengono gettate ma conservate e ripulite (possono contenerne fino a 200 ml ognuna). Quindi il paziente trae dalla procedura benefici che riguardano sia i tempi di recupero post-intervento che vengono nettamente ridotti, sia il rischio chirurgico che risulta sovrapponibile o minore rispetto alla chirurgia tradizionale con trasfusioni».

Il protocollo bloodless si può proporre in tutti gli interventi di cardiochirurgia ma la sua applicazione non è automatica. Ogni singolo paziente va attentamente valutato prima di procedere: le cause dell’anemia preoperatoria, per esempio, i parametri di coagulazione del soggetto, la sua condizione psicofisica generale, l’eventuale maggiore facilità di sanguinamento dei tessuti, sono alcuni fattori da valutare nella visita. Qualora questi parametri non rientrino nelle indicazioni al trattamento, occorre pianificare con il paziente un accordo terapeutico condiviso.

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