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Curiosità

La Strega di Pocapaglia

Intervista semiseria di Gianduja alla Masca Micilina, per raccontare la sua vita e la sua morte. L’intervista è impossibile, ma la storia è quella della tradizione.

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Ho letto alcuni articoli pubblicati sul sito, riguardanti le masche, le streghe e la magia a Torino, e mi sono ricordato di quanto ho visto ed ascoltato qualche mese fa, a Pocapaglia, vicino a Bra.

Alcuni amici mi avevano invitato per passare qualche giorno in terra di Langa, nella Langa della nostalgia, dicevano loro. Io avevo accettato e così, prima di ritornare a Callianetto, mi ero fermato a Bra, ospite di una vecchia famiglia nobiliare.

La sera ci ritrovammo a Pocapaglia per la rievocazione -dicevano loro- di una vijà. La veglia nella stalla trascorsa a raccontarsi storie. Loro non potevano immaginare quante ne avessi viste quando ero giovane, e in quei tempi erano proprio vere, non rievocazioni. Comunque, ho sempre preferito mantenere il riserbo sulla mia età.

Ci trovammo quindi nella stalla a rievocare memorie, racconti del terrore, leggende di castelli e fantasmi, fatti magici sulle colline, streghe e cimiteri e, visto che eravamo a Pocapaglia, finimmo con il parlare della masca Micilina. La serata passò tranquilla, tra un buon bicchiere di vino e un ottimo boccone.

Poi io ripartii per ritornare a Bra, in automobile: purtroppo anch’io ho dovuto adeguarmi ai tempi e imparare a guidare, e mi avviai verso la provinciale.

Fu lì che incontrai la masca, prima del bivio, proprio all’altezza del ristorante “L’Ostu ‘d Racunis”.

Era lì, in mezzo alla strada, che mi guardava e non si muoveva. Non che l’avessi riconosciuta: era una bella donna di mezz’età, vestita in modo un po’ antiquato e sorridente.

Scesi per dirle di spostarsi e lei si mise a ridere.

“Se mi sono messa qui è perché non voglio farti passare!”

“Ma perché?”

“Ma non mi riconosci? Avete parlato di me tutta la sera. Sono Micilina.”

Non fossi stato Gianduja avrei potuto preoccuparmi, ma ero solo più curioso.

“Vieni, facciamo due passi …”

Parcheggiai al bordo della strada e cominciammo a camminare.

“Io sono una strega. Streghe si è per sempre, anche dopo la morte. Ma qui ci chiamiamo Masche. E posso assicurarti che a me del diavolo non me ne è mai importato niente. Quello è un problema della Chiesa. Pensa che a quei tempi vedevano il diavolo dappertutto.”

Risposi: “Sì.  La caccia alle streghe è stata una delle più gravi colpe della Chiesa, ed ha portato alla tortura ed alla morte di migliaia di persone. Anche in Piemonte è andata così.”

“Noi siamo state le vittime di una superstizione irrazionale che fa paura, ma siamo sopravvissute, nel ricordo della gente, a quelli che ci hanno fatto del male. Se esiste un inferno quei buoni religiosi se lo sono guadagnato sul campo. Ma non voglio ricordare le torture.”

Camminammo un poco nel silenzio della notte.

“Stasera non considerare le distanze perché le percorreremo velocemente. Ho ancora del potere, quello che mi è arrivato dalla masca che me lo trasmesso, insieme al Libro del Comando. A me è bastato il suo tocco prima che morisse, e ho avuto il potere, perché la pratica me la aveva già insegnata. “

Ci fermiamo: “E’ qui che mi hanno bruciata viva. Qui, a San Sebastiano. E qui mi ricordano ancora le masche di oggi, che si incontrano due volte l’anno: a mezzanotte di un giovedì del mese di aprile e a mezzanotte di un giovedì del mese di novembre. Non posso dirti il giorno giusto perché se no arriverebbero troppi curiosi. Per tradizione le mie sorelle streghe arrivano alla spicciolata, qualcuna trasformata in gatta, e celebrano i nostri antichi riti. MI piace essere ricordata così.”

La guardai annuendo.

“L’idea che le streghe fossero fedeli del diavolo, come gli eretici o chiunque non avesse condiviso quanto insegnato dalla Chiesa di allora, ha permesso che in nome di Gesù si perseguitassero e torturassero donne e uomini in modo arbitrario e violento. È evidente che una persona che subisce una tortura dolorosa finisce con il confessare qualunque cosa purché il dolore finisca.”

“Puoi dirlo forte!” Quando ti torturano confesseresti qualunque cosa pur di farli smettere: quelli non avevano rispetto di niente e di nessuno, perché sapevano di essere al di sopra di ogni legge. La gente taceva e annuiva, perché in fondo aveva paura dei nostri poteri, dei malefici, anche se poi venivano a chiederci consiglio ed aiuto. Noi avevamo un potere misterioso, che usavamo per togliere o lanciare fatture, per curare mali inguaribili, anche con l’uso di erbe ed unguenti prodotti con le erbe che conoscevamo bene.”

“Dicevano che potevate trasformarvi in animali …”

È vero, ma non c’è niente di speciale in questo, se hai il dono, solo un po’ di pratica. Invece quella di poter scatenare tempeste e inondazioni era un’esagerazione popolare.”

Ci sediamo su di una panca: “Raccontami qualcosa della tua vita.”

“Sono qui per questo. Un giorno ti servirà il mio racconto, quindi poi scrivilo.”

“Per metà della mia vita ho vissuto a Pocapaglia, da sola, in una casa isolata, così potevo lavorare alle mie pratiche magiche, allora si diceva che “facevo della fisica”. Conoscevo bene le erbe e sapevo lanciare incantesimi per l’amore e la prosperità, ma anche per le separazioni e le vendette. Avevo ricevuto da un’altra masca, che mi aveva trasmesso il potere, anche il “Libro del Comando”, dove c’erano scritte le formule per gli incantesimi e i consigli delle masche che mi avevano preceduto e che lo avevano posseduto. Oggi non ci sarebbe niente di strano, ma allora era tutto diverso.”

Si fermò, si alzò, si diresse verso la collinetta. “E’ proprio qui che è successo. Sento ancora il bruciore del fuoco e l’odore della mia carne che brucia. E rivedo loro che mi guardavano soddisfatti.”

Tornò indietro, si sedette di nuovo.

“Pensa che c’è un manoscritto del XVIII secolo dove è stata scritta la mia vita, che è conservato nel museo del Comune di Pocapaglia.”

“Sono nata a Barolo, in una famiglia contadina e quel poveretto di mio padre mi ha costretta a sposare il figlio di un proprietario terriero di Pocapaglia.  Diceva “Vedrai come starai bene …” Lo avrei insultato, ma non potevo: allora i figli avevano pochi diritti e le figlie nessuno. Mia madre mi capiva, ma stava zitta per paura delle botte. Dopo il matrimonio dovetti lavorare nei campi dall’alba al tramonto: bella vita per una sposa! Senza contare che i paesani mi trattavano da straniera e, dato che avevo i capelli rossi e la pelle bianca, dicevano che portavo sfortuna. Mio marito poi era un violento, mi picchiava e raccontava falsità sul suo conto: ad esempio diceva agli amici, quando si ubriacava in osteria, che di notte io scomparivo per riapparire solo all’alba. Così tutti pensavano che fossi una masca, anche se allora non era vero.”

Si alzò in piedi e tra le sue mani apparve una roncola. “Sapessi come stavo male! E come mi sentivo umiliata e sfruttata, senza contare i lividi che avevo sulla pelle. Fu lì che mi aiutò una vecchia signora gentile, una del paese che viveva da sola, considerata una masca. Più tardi capii che era una vera masca. Lei mi prese sotto la sua protezione e mi insegnò i primi incantesimi.”

“E poi?”

“E poi mio marito si accorse che incontravo quella donna, così mi chiuse nella stalla facendomi ogni cattiveria. Mi legava, mi picchiava, mi faceva pulire le bestie con le mani e non mi dava da mangiare. Ero disperata. Ma per fortuna quell’uomo infame qualche giorno dopo cadde da un albero e batté la testa così forte da morire dopo un giorno di incoscienza. Ne fui contenta. Non so davvero se fosse intervenuta la mia amica o se fosse stata una fatalità: però ne fui contenta.”

“Dopo questo credo che tutti …”

“Si, si, tutti hanno pensato che fossi stata io, e cominciarono a starmi lontano per paura dei miei malefici. Poi la mia amica morì e mi passò il dono. Così divenni davvero una masca.”

Posò la roncola di lato.

“Hanno raccontato così tante storie su di me che neanche io le conosco tutte. Mi temevano. Ci sono tante storie che si raccontano ancora adesso. Mi temevano tutti, perché avevano paura dei miei incantesimi, però, quando non sapevano cosa fare, ed i medici erano troppo cari o impotenti a guarire le malattie, bussavano alla mia porta e mi supplicavano di aiutarli. E ne ho aiutati tanti, con le erbe, gli unguenti, le benedizioni ed il mio su tocco guaritore. Loro avevano paura e per sdebitarsi mi facevano offerte, di solito cibi, come vino, carne, salumi e formaggi.”

“E poi ti hanno denunciata all’inquisizione.”

“Si. Alla fine, fui accusata di stregoneria e, dopo essere stata torturata, confessai quello che gli inquisitori volevano farmi dire, e quindi fui condannata a morte ed arsa viva su quest’altura.”

Sorride: “Sai? Morire non è mai bello. Ti passa davanti tutta la tua vita, e loro erano lì davanti che ridevano, anche i paesani che avevo aiutato.”

“Nei giorni successivi sono andata a trovarli tutti e li ho spaventati: hanno detto che erano altre streghe. Ma ero io. Non ho ucciso nessuno ma, in qualche caso, ho colpito le loro cose ed i loro animali. Ero così arrabbiata!”

“E adesso?”

“Adesso, caro Gianduja, sono una leggenda e vivrò fino a che racconteranno la mia storia. Scrivi che vengano a trovarmi a Pocapaglia, e io ci sarò, nel vento, nell’aria, nelle gocce di rugiada, nella terra dove hanno bruciato il mio corpo, nella luce del tramonto, quando le cose perdono il loro contorno per svanire nella notte.”

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