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L’ultimo boja di Torino

Oggi la pena di morte in Italia non c’é più. Ed è meglio che rimanga un penoso ricordo lontano.
Impossibile, tuttavia, dimenticare Pietro Pantoni, rimasto in attività per più di trent’anni, giustiziando 127 persone, fino al 13 aprile 1864. Intervista semiseria di Gianduja a Pietro Pantoni, ultimo boja di Torino

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Lo incontro in osteria. Aveva bevuto, ma non tanto da straparlare. Mi vede. “Ohh, Munsú Gianduja. É proprio Lei? E io che pensavo fosse una fantasia.”
Munsú Pantoni …”
“Pietro, per favore.”
“Munsú Pietro. Mi spiace che sia sempre solo …”
“Che farci: é la solitudine del boja. Il lavoro sporco qualcuno lo deve fare. Peró poi tutti non vogliono averci niente a che fare.
Questo lo ha provato anche lei quando ha dovuto cambiare nome e rifugiarsi a Callianetto.”
“Ma io sono solo un attore, una maschera, mentre lei é l˙esecutore di giustizia, una persona importante.”
“Bella roba: lavoro duro e l’unico che mi parla é il becchino, o quell’anima santa di Don Cafasso, o i confratelli della Misericordia. Devo andare a chiedere scusa, il giorno prima,  a un poveretto che devo ammazzare il giorno dopo e che di solito mi fa anche pena: si figuri lei, Gianduja, quanto ha voglia di perdonarmi. Anche perché anche lui sa benissimo che il giorno dopo dovrò ammazzarlo, e sa anche il modo.”
“Ma lei é uno capace …”
A parte che ogni esecuzione é diversa dall’altra, qui non siamo mica in Inghilterra, con quelle belle botole che si aprono facilmente sotto i piedi del condannato e con tutte quelle finezze sulle corde preziose per i condannati illustri. Qui sono io, Pietro Pantoni il boja, quello che deve salire sulla scala per rompergli l’osso del collo spingendo con i piedi sulla sua clavicola fino a sentire quello schianto secco che mi perseguita anche ne sonno! Non mi ci faccia pensare! E li io recito sempre una preghiera perché la sua anima trovi pace.
E poi ci sono tutti quei buoni cittadini a godersi lo spettacolo e a giudicare se faccio bene il mio lavoro. Gente che ha paura ad ammazzare un coniglio si preoccupa di come lavoro io.
E quando invece si diveva usare l’ascia? Se uno sbagliava il colpo erano capaci di ammazzarlo! Per questo facevo tutto il lavoro personalmente, senza fidarmi dei miei assistenti, e appena finivo mi univo ai Confratelli della Misericordia e me ne andavo via subito.”
“Ma perché non ha fatto  un altro mestiere?”
“Ero, come si dice, figlio d’arte. Io sono nato a Reggio Emilia e mio padre era Antonio Pantoni, ferrarese, boja di Modena e genero di Mastro Titta, boja dello Stato Della Chiesa. Anche mio fratello maggiore Giuseppe é boja a Parma.
“Cosa vuol dire?”
Che non ho avuto scelta: non sfuggi a quello che si aspettano da re. Ti adatti. E cerchi di non fare troppo male ai condannati, perché certe volte chi li ha condannati é peggiore di loro! Ci sono dei pendagli da forca, dei banditi infami, dei delinquenti senza rispetto, ma ci sono anche persone che non meritavano la forca, e che sono stati condannati senza prove o perchè antipatici a qualcuno, oppure …”
“Oppure?”
“Oppure pefché erano dei patrioti.”
“Cuntacc! Ma state attento a parlare …”
“Ma figuratevi. Trovare un altro boja é troppo difficile. Cosa vuole che dicano. Penserà mica che venga il re ad impiccare i briganti?”
“È vero. Non é facile.”
L’oste alza un boccale senza parlare.
Il boja fa segno di no.
Poi prende alcune monete e le lascia sul tavolo.
“Ha visto Gianduja? Neanche mi parlano, ma adesso devo andare a visitare un condannato. Uno che morirà domani mattina, dopo avere fatto la ‘passerella’ in città, transitando sul carro dei condannati per le vie del centro cittadino. Ed io oggi mi sento davvero solo come un boja.”
“Ma lo é …”
“Appunto …”
“È il suo destino. Ma se vuole può cambiarlo.”
“E mi vede, alla mia età, fare l’apprendista? E poi di cosa? Di un becchino?”
“Questo non é possibile.”
“E allora mi ricorderanno come l’ultimo boja di Torino, perché il mondo sta cambiando.”
Mi saluta e poi conclude.
“É triste quando si é sempre insultati, ma una cosa c’é di grande, di incredibile.”
“Quale?”
“Che nonostante tutto mia moglie ed i miei figli, tre femmine e due maschi, mi vogliono bene, malgrado la vita grama che la mia professione fa fare loro.”
Si leva il cappello ed io il tricorno in segno di saluto, poi si allontana.
Mi ha fatto anche un po’ pena. Anche se la sua vita é intrisa del sangue della gente che lui ha legalmente ammazzato.
Peró una cosa ce l’ho che mi rode. É stato lui a impiccare Ciro Menotti. E questa non gliela posso perdonare.
Oggi la pena di morte in Italia non c’é piú. Ed è meglio che rimanga un penoso ricordo lontano.
Per la cronaca Pietro Pantoni è rimasto in attività per più di trent’anni, giustiziando 127 persone, fino al 13 aprile 1864.
Da lí in poi la forca fu sostituita con la fucilazione.

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